Butter


Genere: Narrativa Contemporanea

Scritto da: Asako Yuzuki 

16 aprile 2024


Rika è una giornalista in una rivista maschile. È l'unica donna nel suo posto di lavoro e spesso viene trattata come una segretaria, quando non peggio. Per cercare di farsi strada lavora giorno e notte e tutto ciò che riesce a cucinare quando la sera torna tardi a casa è un ramen preconfezionato. Da tempo però un pensiero la assilla: vuole intervistare Manako Kajii, la cuoca gourmet accusata di aver assassinato gli uomini d'affari con i quali si intratteneva, dopo aver cucinato per loro. Ma la donna non rilascia interviste e non intende ricevere visitatori nel carcere di Tokyo dove è detenuta. Rika decide di provare un'altra strada e le scrive una lettera per conoscere la ricetta dello stufato di manzo, pezzo forte della cucina di Manako. La detenuta a quel punto accetta di incontrarla. Quando, però, le visite in carcere alla serial killer si intensificano, cresce anche la curiosità gastronomica di Rika. Durante i loro incontri, che si avvicinano più a una masterclass di cucina che a un'indagine giornalistica, sembra infatti che sia proprio la giovane reporter a cambiare. A ogni pasto che prepara e consuma, qualcosa si risveglia nel suo corpo e scopre nel cibo un piacere liberatorio: forse lei e Manako hanno in comune più di quanto pensasse? Ispirato al vero caso di cronaca della truffatrice e serial killer “The Konkatsu Killer”, "Butter" di Asako Yuzuki è un'esplorazione vivida e inquietante sulla misoginia, l'ossessione e il piacere trasgressivo del cibo in un Giappone in cui le donne devono sempre compiacere gli uomini e mai se stesse.



Ciao Lettori,
ritorno a voi per la recensione di “Butter” di Asako Yuzuki, edito dalla HarperCollins che ringrazio per la copia digitale del libro. “Butter” è un libro di narrativa contemporanea autoconclusivo.

Quando decido di leggere un libro di un autore giapponese so già che dovrò uscire da ogni mia “abitudine” letteraria, spogliarmi di qualsiasi tipo di aspettativa e accettare quello che viene come viene, senza giudicare con il solito metro. Perché, non c’è niente da fare, i giapponesi sono diversi. Pensano diversamente e scrivono diversamente. E quello che pesa in assoluto di più, almeno su di me, è proprio una invisibile barriera culturale che viene fuori prepotente soprattutto nella scrittura. Per quanti manga, anime, film o serie giapponesi io possa aver letto/visto fino ad ora, ancora non riesco a superare quello strato invisibile che mi separa da una mente giapponese.

Lo conferma anche “Butter”. Anche in questo libro non ho trovato una vera trama, non esiste una cornice all’interno del quale si sviluppa un racconto, con un inizio, uno sviluppo e una fine determinati. Tutto rimane sospeso e aperto. L’autrice non racconta una storia, racconta di personaggi a cui la storia fa solo da sfondo.

La prima persona narrante e protagonista del romanzo è Rika Machida, giornalista per una rivista maschile che ambisce a diventare caporedattrice della sua sezione, ma in realtà la narrazione si sviluppa su tre figure femminili: la prima è Rika, motore della storia, la seconda è Reiko, sua migliore amica, addetta stampa per una grossa casa di produzione cinematografica che decide di lasciare il lavoro per dedicarsi alla famiglia, infine Manako Kajii, una presunta assassina il cui processo è presto divenuto un caso mediatico a causa delle particolari relazioni tra lei e le sue presunte vittime. Proprio per questa risonanza mediatica e la conturbante figura di Manako Kajii, Rika decide di provare a ottenere da lei un’intervista esclusiva come trampolino per la sua promozione. Il libro si sviluppa proprio nel rapporto che si instaura tra le tre donne e come questo cambierà radicalmente la loro vita.

Le tre donne rappresentano tre aspetti delle donne moderne giapponesi. La giornalista è la donna in carriera, la figura che dovrebbe essere la più progredita, ma è in realtà quella più in gabbia, perché deve ricoprire un ruolo maschile mantenendo intatte le caratteristiche che la società ci si aspetta da una donna. Emblematico è il passaggio in cui la donna inizia ad aumentare di peso a causa delle esperienze culinarie che Manako Kajii le suggerisce. Il suo aumentare di peso è oggetto di discussione da parte di tutti, sul lavoro viene vista con disprezzo perché associato a sciatteria e abbandono della cura di sé stessa, Reiko la condanna perché la vede come un pericoloso plagio di Manako su Riko, il suo amante la disprezza perché teme che il suo ingrassare possa riflettersi negativamente anche sull’opinione che di lui hanno gli altri. Il tutto viene poi, sorprendentemente (per me), ribaltato quando si scopre della sua indagine su Manako e il suo ingrassare è lodato perché identificato come un sacrificio che Riko sta facendo per il bene del giornale e della società ed è quindi spinto dal senso del dovere e non dell’abbandono.

A parte l’inammissibilità del fatto che il suo ingrassare sia oggetto di discussione pubblica, a nessuno viene in mente che Riko ingrassa perché le piace mangiare, perché attraverso il piacere che le provoca il cibo sta piano piano riscoprendo il piacere di prendersi cura di sé in modo sano e non attraverso la mortificazione di sé per l’esaltazione dell’altro, come invece ci si aspetta da una donna.
Reiko è la donna che ha rinunciato alla carriera per dedicarsi a una futuranda famiglia. Ma finisce per dedicarsi al solo marito perché questi si sente messo sotto pressione dalla scelta di lei e le si nega. Smarrita, la donna brillante che era si sente snudata di tutte le sue persone: non è più donna in carriera, non sarà madre, non è più moglie. Dove l’hanno portata le sue scelte? Non ha sbagliato per le scelte che ha fatto, ma per chi le ha fatte. Ha deciso di rinunciare al lavoro non per sé stessa, ma per rientrare negli schemi e quando questa decisione le si ritorce contro come un boomerang si perde. Se avesse scelto per sé stessa e non per gli altri sarebbe stato diverso per lei?

E poi c’è Manako Kajii, la donna che gli schemi se li mangia. È la figura che in apparenza abbraccia il sistema e lo difende con rabbia: la donna (giapponese) è tale quando si mette “a servizio” dell’uomo, quando cucina per lui, lo coccola, lo asseconda, lo esaudisce, trae piacere dal piacere che l’uomo prova delle sue attenzioni… e poi lo uccide.

Geniale.

Trovo sempre geniali quelli che riescono a far autodistruggere i sistemi rimanendone illesi. Dietro di sé non lasciano nulla; la rabbia che provano diventa il napalm che brucia la realtà che li circonda. Manako è il prodotto femminile ideale del sistema (giapponese). Peccato sia un prodotto così alterato da generare pazzia, il tumore da cui il sistema non sa difendersi.

Ma in tutto questo, gli uomini? Gli uomini giapponesi in questo libro fanno una magrissima figura. Le vittime di Manako sono lo specchio maschile e altrettanto malato del sistema… l’uomo che apprezza Manako non la vede come una donna ma come un prolungamento di sé e per il suo compiacimento, in una sessione di autoerotismo senza fine. Anche il fidanzato di Rika e il marito di Reiko non sono migliori, il primo non la vede nemmeno, se la immagina e basta e quando Rika inizia a cambiare si sente minacciato dalla sua autodeterminazione. Il secondo è vittima della forte personalità della moglie che finisce per idealizzare… emblematica è la frase che le rivolge quando le confessa di non poter più avere rapporti sessuali con lei perché ha paura di farle male.

A contatto con Manako Kajii sia Rika che Reiko maturano, si rafforzano, si purificano delle scorie e delle pressioni della società, delle aspettative degli altri e si autodeterminano.

“Rika: sono una donna in carriera ma dovrei essere sposa, madre, magra, è sbagliato che provi piacere e indulga nelle cose che mi piacciono, anzi, neanche so quali siano le cose che mi piacciono.” 

Ma grazie all’incontro con Manako Kajii la giornalista impara che non è sbagliato darsi piacere e che è lecito andare alla scoperta di sé stessa e del proprio piacere (nel cibo, nel lavoro, nel sesso, nelle relazioni con gli altri).

“Reiko: solo se sono impeccabile posso crearmi una famiglia in cui essere amata.”

Grazie a Manako Kajii, Reiko scopre che la sua è solo un’illusione e che il valore finora dato a suo marito in realtà era rivolto solo a sé stessa, l’assassina rivolgeva le sue attenzioni agli uomini per essere riconosciuta, e la stessa cosa fa Reiko, ripetendo all’infinito lo stesso quadro per sentirsi al sicuro. Poco importa all’interno di quel quadro chi ci fosse, il marito o qualcun altro non faceva differenza.
La Kajii diventa il riflesso mostruoso delle due donne, ma entrambe, anche se all’inizio restano orripilate dal mostro che vedono e ne sono annichilite, hanno anche la forza di rialzarsi e uscirne cambiate, in meglio.

È un libro lento e tortuoso, a tratti noioso e quasi privo di un filo conduttore. Superata la prima metà si mettono insieme pezzi inaspettati, traumi infilati a mezza bocca e un minestrone di altri eventi che poco fanno per arricchire la trama, anzi la appesantiscono non poco.
Sono sicura che ci sia anche molto simbolismo, ma non essendo giapponese non credo di essere riuscita a cogliere tutto.
Alla fine non è affatto una lettura semplice e si deve leggere con le giuste aspettative, quelle di un giallo o di un racconto con una trama compiuta sono le più sbagliate. È un libro che parla di donne e del loro doloroso percorso di vita. Non c’è una conclusione netta, ma una fine migliore dell’inizio sì.

Voto libro - 3




 

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