Sono contenta che mia mamma è morta
Genere: Autobiografia
Scritto da: Jennette McCurdy
14 marzo 2023
Jennette McCurdy aveva solo sei anni quando si presentò al suo primo provino. La madre sognava che diventasse una star e Jennette avrebbe fatto qualsiasi cosa per compiacerla. Compreso digiunare e pesarsi cinque volte al giorno, sottoporsi a estenuanti ore di trucco e rinunciare a qualsiasi forma di privacy. In queste pagine ricche di innocente candore e umorismo nero, racconta la sua infanzia e adolescenza, senza timore di toccare temi scottanti come i disturbi alimentari, le dipendenze e le relazioni familiari. Una storia di resilienza e conquista della libertà.
Salve salve!
Stavolta vengo a voi con una lettura diversa dal solito. Grazie alla Mondadori Oscar Vault, che mi ha inviato la copia cartacea a sorpresa, e per questo ringrazio, ho avuto la possibilità di leggere “Sono contenta che mia mamma è morta” di Jennette McCurdy.
L’abbiamo conosciuta come Sam in una delle serie simbolo di Nickelodeon, “iCarly”, convint3 che quella del suo personaggio fosse alla stessa personalità dell’attrice, probabilmente invidiando la sua fama e la sua fortuna. Molto banalmente questo memoir sottolinea una verità che spesso dimentichiamo: non sappiamo mai cosa si nasconde dietro i sorrisi di una persona, per quanto bene pensiamo di conoscerla.
Il memoir inizia con un flashforward, Jennette al capezzale della madre, malata di cancro, in coma. Ogni figlio le dà una notizia, sperando che possano spingerla a svegliarsi. Jennette, 21 anni, annuncia di essere arrivata a 40 kg.
“Ma non si sveglia. Non si sveglia affatto. Questa cosa non ha senso. Se il mio peso non basta a far svegliare la mamma, allora niente basterà. E se nulla può svegliarla, allora significa che morirà per davvero. E se morirà per davvero, che cosa farò? Che cosa ne sarà di me? Lo scopo della mia vita è sempre stato rendere felice mamma, essere la persona che voleva che fossi. Quindi, senza mamma, chi dovrei essere ora?”
Poi facciamo un passo indietro, Jennette ha sei anni e passo dopo passo ci rende partecip3 della sua quotidianità. Lei e i fratelli sono educati in casa dalla madre, un’accumulatrice; casa loro è talmente piena di cose che i bambini dormono in salotto su misere brande.
Jennette adora sua madre, la trova bellissima, elegante, sofisticata, è una dea, la sua migliore amica, l’unica a capire ogni suo silenzio, reazione ed emozione.
Jennette farebbe di tutto per rendere felice la sua mammina: inizia una carriera da attrice anche se recitare non le piace affatto, poiché la fa sentire a disagio; non sceglie gusti di gelato diversi perché significherebbe che sta cambiando e la madre non sopporterebbe di vederla crescere; “smette di crescere”, seguendo con la madre un processo di restrizione calorica per restare bambina il più possibile, che si traduce in anoressia, che la donna supporta.
Questo è il prima, quando Deb McCurdy era ancora viva e la vita di Jennette ruotava intorno alla madre, era vissuta per la madre, al posto della madre, era controllata in modo ossessivo dalla madre, che non si faceva scrupoli a manipolare e abusare emotivamente della figlia.
Poi c’è il dopo, dopo la morte della madre, quando il dolore per la perdita (non solo della figura materna, ma di una figura che ha controllato, influenzato, determinato ogni singolo aspetta della sua vita) diventa bulimia e alcolismo. Jennette non ha neanche vent’anni e la sua anima è già stata annientata.
Ma il dopo è anche comprensione, richiesta di aiuto, passi avanti e battute d’arresto, infine guarigione.
“Mamma lo vuole più di ogni altra cosa, io no. Questa giornata è stata stressante e tutt’altro che divertente, e se dipendesse da me, non farei mai più nulla di simile. Ma è vero anche che voglio quello che vuole mamma.”
Jennette McCurdy, nel suo percorso di guarigione, è riuscita a raggiungere una consapevolezza della sua vita, della sua persona e di quella della madre, dell’influenza e del danno causato dalla donna, indefinibile. E la fatica che ci è voluta per arrivare a questo punto, Jennette non la nasconde.
Credo che la particolarità di questo memoir stia nel modo in cui Jennette ha deciso di mettere nero su bianco i momenti più cruciali della sua vita.
È analitica, diretta, pacata, non si lascia distrarre dallo scopo della sua opera, ovvero mettere nero su bianco, in modo quasi terapeutico, tutta la sua vita.
Leggendo la prima parte non si può che rimanere orripilat3 dal comportamento di Debra McCurdy, che teneva, sotto il suo controllo, non solo la figlia, ma un’intera famiglia: nonno, nonna (da cui Debra ha acquisito tutti i suoi comportamenti più tossici), tre figli, marito e la figlia. Jennette, la figlia minore, la più vulnerabile eppure la più forte.
Leggendo questo memoir sono tante le domande che sorgono, alcune infuriate, altre tristi, ma diciamoci la verità, non serve a nulla la nostra rabbia o la nostra compassione.
“Certo, mi rendo conto di quanto sembri irritante e lamentosa. Milioni di persone sognano di essere famose, e io sono qui a ripetere quanto odio la mia fama. Ma in qualche modo, sento di avere tutto il diritto di provare quest'odio perché diventare famosa non è mai stato il mio sogno. Era il sogno di mamma. È stata mamma a spingermi verso tutto questo. E mi è permesso odiare il sogno di qualcun altro, anche se è la mia realtà.”
Con “Sono contenta che mia mamma è morta” non cerca pietà o commiserazione, non dà colpe né cerca giustificazioni, è il modo in cui Jennette McCurdy riprende pieno possesso sulla sua vita, diventa la protagonista di un’infanzia che le è stata rubata e stabilisce la SUA narrazione.
Nella prima parte Jennette dispiega gli eventi della sua infanzia quasi come se non ne fosse lei la protagonista e in fin dei conti un po’ è stato così; Jennette era una marionetta nelle mani di Debra, che ha vissuto attraverso la figlia la vita che avrebbe voluto vivere, ha manipolato e distrutto, tenendo intrappolata Jennette in un ricatto emotivo che è sopravvissuto persino alla sua scomparsa.
Il tono inizia a cambiare quando Jennette compie 17 anni e si allontana per la prima volta dalla madre, quando inizia a sospettare che c’è qualcosa di sbagliato nel loro rapporto e nel suo comportamento, ma la distanza non è mai abbastanza e le conseguenze della sua infanzia si modificano e si adattano alla fase in cui Jennette si trova.
La seconda parte, invece, è molto più consapevole. Debra non c’è più eppure la sua influenza si sente ancora, ma stavolta Jennette inizia ad essere consapevole di sé, per il semplice motivo che la persona che ha controllato ogni singolo aspetto di lei, il suo comportamento, la sua figura, le sue emozioni, così come la sua istruzione e il suo lavoro, non c’è più. Ora Jennette è in balia di sé stessa, ma lei non sa chi è, non sa chi sarebbe potuta essere, né chi sarà. Allora continua a seguire una strada che più o meno conosce, quella segnata dalla madre: fa un lavoro che odia in una serie che trova degradante (Sam & Cat) e controlla il suo peso in modo ossessivo, ma stavolta si aggiungono l’alcool e la bulimia.
“Per pranzo andiamo a sederci in un piccolo caffè sullo stesso piano. Ordino un'insalata con condimento a parte per rendere orgogliosa la mamma. Non ne mangio nemmeno un boccone. Mi sento fortunata, persino grata, che il trauma mi abbia tolto l'appetito. Certo, mamma è morta, ma almeno non sto mangiando.”
Eppure Jennette è lucida nel suo racconto, soprattutto quando inizia a rendersi conto che un problema c’è. A questo punto iniziamo a sperare che tutto andrà per il meglio, che la terapia filerà liscia e Jennette sarà finalmente felice, ma la vita non è un libro o un film o una sitcom, e la realtà Jennette ce la fa piovere di nuovo addosso senza tenersi nulla.
“Se la mamma non voleva davvero ciò che era meglio per me, non faceva ciò che era meglio per me o non sapeva cosa era meglio per me, allora tutta la mia vita, la mia visione del mondo e la mia stessa identità sono state costruite su falsi presupposti. E se tutta la mia vita e la mia visione del mondo e la mia stessa identità sono state costruite su falsi presupposti, affrontare la falsità di quei presupposti significherebbe distruggerli e ricostruirne di nuovi da zero. Non ho idea di come fare. Non ho idea di come andare avanti senza farlo all'ombra di mia madre, senza che ogni mia azione sia dettata dai suoi desideri, dai suoi bisogni, dalla sua approvazione.”
Nonostante la gravità degli argomenti, il memoir si lascia leggere con estrema facilità. Merito dello stile diretto, dei capitoli brevi e delle vicende che, emotivamente, non lasciano scampo.
Dal punto di vista emotivo (scusate la ripetizione) il libro è forte, difficile da digerire, “pesante”, ma dal punto di vista stilistico è davvero scorrevole.
Preparatevi a provare una montagna di emozioni, per lo più negative, in un viaggio catartico e pieno di scossoni. E fate attenzione ai trigger warning: si parla di anoressia, bulimia, manipolazione emotiva, abusi emotivi e fisici, autolesionismo, cancro.
Grazie ancora Oscar Vault per questa lettura.
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